mercoledì 6 gennaio 2010

La Casa dalle Finestre Nere di Clifford D. Simak


La casa dalle finestre nere uscì a puntate su Galaxy nel 1936 con il titolo Here gather the stars (Qui si raccolgono le stelle) e, dopo la premiazione, come libro dal titolo Way station (Stazione di transito).
Enoch Fallace, il protagonista è un uomo dell’Ottocento, reso quasi immortale in cambio dei suoi servizi di custode della stazione di transito per teletrasporto installata in casa sua.
Enoch è quindi un diverso dall’uomo del nostro tempo, non tanto per il periodo in cui si è formato, quanto per la necessità del massimo isolamento che la sua vita deve avere del resto dell’umanità. Si trova così ad avere in comune poco con i pochi che frequenta abitualmente e di rado, gli uomini intorno a lui, e praticamente nulla con la moltitudine di passaggio da un secolo in casa sua. Un solitudine totale, quindi, mitigata solo da alcune amicizie. Quella profondamente umana con l’extraterrestre che l’ha convinto a permettere la stazione. Quella delicata con il postino e quella profondamente interiore con una povera minorata che ha instaurato un suo rapporto personale con la natura e guarisce verruche e farfalle.
Contatti radi, anche se profondi, con tre persone. Ma gli alieni l’hanno rifornito di passatempi che quando usati lo coinvolgono profondamente, come il tiro a segno, dove caccia animali strani in posti stranissimi che lo divorano quando manca il bersaglio. Alcuni lo coinvolgono totalmente e senza rimedio. Ci sono fantasmi elettronici, apparentemente umani dei suoi tempi, che gli tengono compagnia quando li chiama. Enoch si accorge che questi fantasmi col tempo hanno preso coscienza di sé e umanamente soffrono della propria disumanità, ed egli pure ne soffre.
Perché Enoch è sensibile agli altri. Intelligente, timido e generoso, ha accettato il suo compito non per il miraggio dell’immortalità ma per altruismo, per sentirsi utile. Introverso, non soffre la generica mancanza di compagnia. Sensibile, soffre la mancanza di amicizia. Ha bisogno di comunicare e in pratica lo può soltanto ogni tanto con alcuni degli alieni che transitano di lì. In lui si sommano la curiosità dell’intellettuale e la pazienza e la sapienza di lasciarsi scorrere col tempo del contadino. Passa la vita (ed è una vita lunga, quasi infinita) a contatto con meraviglie incomprensibili in una routine di impiegato delle ferrovie, senza mai per questo divenire un indaffarato burocrate.
Il libro è tutto centrato su di lui. Simak non ha ceduto alla tentazione di mostrarci una galleria di alieni folcloristici, ma ci descrive i pochi che ci mostra con la consueta abilità con cui ci ha sempre fatto considerare normali e simpatici esseri con un aspetto che, se li vedessimo nella realtà, ci farebbe fuggire a gambe levate. Esseri con una loro logica, ma specialmente con loro sentimenti, perché Simak è un emotivo.
E a questo proposito, qui abbiamo una rottura nella tradizione simakiana. Abbiamo un extraterrestre cattivo.
Simak doveva essere così disorientata dalla novità che per dargli un aspetto sicuramente repellente a dovuto andare a pescare nella fauna terrestre e gli ha dato le connotazioni del topo da fogna. Gli fa fare le consuete azioni che fanno i cattivi e poi, spaventato, Simak si chiede subito dopo se dopo tutto lo fosse. Attraverso il suo protagonista esterna una profonda pietà per l’alieno e si chiede quali grandi sogni gli hanno fatto fare quello che ha fatto. Forse era “un compagno che sbagliava”…

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