Peter Gabriel III – Il suono della coscienza, oggi più che mai
𝐈𝐥 𝐭𝐞𝐫𝐳𝐨 𝐚𝐥𝐛𝐮𝐦 𝐝𝐢 𝐏𝐞𝐭𝐞𝐫 𝐆𝐚𝐛𝐫𝐢𝐞𝐥, 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐢 𝐩𝐫𝐢𝐦𝐢 𝐝𝐮𝐞, 𝐩𝐨𝐫𝐭𝐚 𝐬𝐞𝐦𝐩𝐥𝐢𝐜𝐞𝐦𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐢𝐥 𝐬𝐮𝐨 𝐧𝐨𝐦𝐞: 𝐏𝐞𝐭𝐞𝐫 𝐆𝐚𝐛𝐫𝐢𝐞𝐥. 𝐍𝐢𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐬𝐨𝐭𝐭𝐨𝐭𝐢𝐭𝐨𝐥𝐢, 𝐧𝐢𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐬𝐥𝐨𝐠𝐚𝐧. 𝐒𝐨𝐥𝐨 𝐦𝐮𝐬𝐢𝐜𝐚, 𝐢𝐝𝐞𝐧𝐭𝐢𝐭𝐚̀, 𝐯𝐢𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞. Ma per l'industria discografica che tutto deve distinguere e etichettare, è Melt.
𝐄 𝐜𝐡𝐞 𝐝𝐢𝐫𝐞… 𝐬𝐨𝐧𝐨 𝐠𝐢𝐚̀ 𝟒𝟓 𝐚𝐧𝐧𝐢 𝐜𝐡𝐞 𝐦𝐢 𝐚𝐜𝐜𝐨𝐦𝐩𝐚𝐠𝐧𝐚. 𝐄𝐩𝐩𝐮𝐫𝐞, 𝐨𝐠𝐧𝐢 𝐯𝐨𝐥𝐭𝐚 𝐜𝐡𝐞 𝐥𝐨 𝐚𝐬𝐜𝐨𝐥𝐭𝐨, 𝐦𝐢 𝐬𝐞𝐦𝐛𝐫𝐚 𝐧𝐮𝐨𝐯𝐨. 𝐕𝐢𝐯𝐨. 𝐍𝐞𝐜𝐞𝐬𝐬𝐚𝐫𝐢𝐨.
Quel disco, con il volto che si scioglie in copertina e le sonorità che sciolgono i confini tra rock, elettronica e denuncia sociale, è più di un album: è un compagno di viaggio. Un’opera che non invecchia, che si adatta al tempo senza mai piegarsi alla moda. C’è qualcosa in quelle tracce — un’urgenza, una profondità, un coraggio — che risuona ancora oggi con forza quasi profetica.
𝐏𝐞𝐭𝐞𝐫 𝐆𝐚𝐛𝐫𝐢𝐞𝐥 𝐈𝐈𝐈 𝐞̀ 𝐮𝐧𝐨 𝐝𝐢 𝐪𝐮𝐞𝐢 𝐫𝐚𝐫𝐢 𝐝𝐢𝐬𝐜𝐡𝐢 𝐜𝐡𝐞 𝐜𝐫𝐞𝐬𝐜𝐨𝐧𝐨 𝐜𝐨𝐧 𝐭𝐞. 𝐂𝐚𝐦𝐛𝐢 𝐭𝐮, 𝐦𝐚 𝐥𝐮𝐢 𝐭𝐢 𝐩𝐚𝐫𝐥𝐚 𝐚𝐧𝐜𝐨𝐫𝐚. 𝐂𝐨𝐧 𝐩𝐚𝐫𝐨𝐥𝐞 𝐝𝐢𝐯𝐞𝐫𝐬𝐞, 𝐦𝐚𝐠𝐚𝐫𝐢, 𝐦𝐚 𝐜𝐨𝐧 𝐥𝐨 𝐬𝐭𝐞𝐬𝐬𝐨 𝐬𝐠𝐮𝐚𝐫𝐝𝐨 𝐥𝐮𝐜𝐢𝐝𝐨 𝐬𝐮𝐥 𝐦𝐨𝐧𝐝𝐨. 𝐄 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐨, 𝐟𝐨𝐫𝐬𝐞, 𝐞̀ 𝐢𝐥 𝐬𝐞𝐠𝐫𝐞𝐭𝐨 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐯𝐞𝐫𝐚 𝐚𝐫𝐭𝐞.
Pubblicato nel maggio del 1980 e comunemente conosciuto come Melt — per via della suggestiva copertina ideata da Storm Thorgerson in cui il volto di Peter Gabriel sembra sciogliersi come cera — il terzo album solista dell’ex frontman dei Genesis rappresenta una frattura decisa con il passato progressive della band inglese.
Con Melt, Gabriel abbandona le atmosfere barocche e oniriche del rock sinfonico per avventurarsi in territori sonori nuovi, spigolosi, urbani, talvolta disturbanti. L’album è un laboratorio di sperimentazione, dove si fondono tecnologie emergenti come i campionatori, la batteria gated reverb (resa celebre da Phil Collins su "Intruder") e l’uso innovativo della voce come strumento ritmico e narrativo. Ma è anche, e forse soprattutto, un’opera profondamente politica e sociale: canzoni come “Biko” — dedicata all’attivista anti-apartheid sudafricano Steve Biko — rivelano un artista sempre più impegnato a dar voce alle ingiustizie del mondo, con un’urgenza etica che diventerà cifra stilistica del suo percorso.
Con questo disco, Gabriel inaugura gli anni Ottanta non solo come musicista visionario, ma come intellettuale del rock: un autore capace di fondere impegno e sperimentazione, suono e coscienza, aprendo la strada a una stagione di grande profondità artistica.
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Musicisti e strumentazione
L’album si avvale di un cast eccezionale, dove ciascun musicista porta un tratto distintivo:
𝐏𝐞𝐭𝐞𝐫 𝐆𝐚𝐛𝐫𝐢𝐞𝐥 – voce, pianoforte, sintetizzatori, percussioni
𝐏𝐡𝐢𝐥 𝐂𝐨𝐥𝐥𝐢𝐧𝐬 – batteria (con l’iconico effetto gated reverb che inaugura qui il suo utilizzo) e surdo
𝐑𝐨𝐛𝐞𝐫𝐭 𝐅𝐫𝐢𝐩𝐩 – chitarra tagliente su “No Self-Control”, “I Don’t Remember” e “Not One of Us”
𝐓𝐨𝐧𝐲 𝐋𝐞𝐯𝐢𝐧 – basso e Chapman Stick, antitesi perfetta della solidità ritmica di Collins
𝐋𝐚𝐫𝐫𝐲 𝐅𝐚𝐬𝐭 – sintetizzatori, processing e atmosfere elettroniche
𝐃𝐚𝐯𝐢𝐝 𝐑𝐡𝐨𝐝𝐞𝐬 – chitarra ritmica e cori, contribuisce al groove ipnotico di molti brani
𝐉𝐞𝐫𝐫𝐲 𝐌𝐚𝐫𝐨𝐭𝐭𝐚 𝐞 𝐌𝐨𝐫𝐫𝐢𝐬 𝐏𝐞𝐫𝐭 – percussioni supplementari, esaltano il carattere tribale di pezzi come “Games Without Frontiers”
𝐊𝐚𝐭𝐞 𝐁𝐮𝐬𝐡 – cori in “No Self-Control” e voce su “Games Without Frontiers”
𝐏𝐚𝐮𝐥 𝐖𝐞𝐥𝐥𝐞𝐫, 𝐃𝐚𝐯𝐞 𝐆𝐫𝐞𝐠𝐨𝐫𝐲, 𝐉𝐨𝐡𝐧 𝐆𝐢𝐛𝐥𝐢𝐧, 𝐃𝐢𝐜𝐤 𝐌𝐨𝐫𝐫𝐢𝐬𝐬𝐞𝐲 e altri ancora completano il mosaico sonoro con contributi puntuali e originali
Track listing (tutti i brani scritti da Peter Gabriel)
Side One
Intruder – 4:54
No Self Control – 3:55
Start – 1:21
I Don’t Remember – 4:42
Family Snapshot – 4:28
And Through the Wire – 5:00
Side Two
7. Games Without Frontiers – 4:06
8. Not One of Us – 5:22
9. Lead a Normal Life – 4:14
10. Biko – 7:32
brano 𝟏𝟎. "𝐁𝐢𝐤𝐨"
Capolavoro politico e umano, dedicato a Stephen Biko: Larry Fast suona cornamuse sintetiche, Marotta e Collins intrecciano percussioni tribali, e Dave Ferguson aggiunge urla e screeches che salgono al cielo come appello di libertà. Il canto corale in xhosa, ripreso dalle registrazioni sul campo, crea un ponte tra Occidente e Sudafrica che ancora oggi commuove e sprona all’azione.
Quando nel 1980 Peter Gabriel pubblicò Biko, la canzone dedicata all’attivista sudafricano Stephen Biko ucciso dalla polizia del regime dell’apartheid, fece qualcosa di rivoluzionario per un artista rock: trasformò una canzone in un atto politico globale. Non un gesto simbolico, ma una denuncia diretta, in musica, contro un sistema di oppressione razziale strutturato e violento. Gabriel non si limitava a raccontare: accusava, metteva in discussione, chiedeva una presa di posizione.
A distanza di 45 anni, Biko non è solo un inno alla memoria, ma anche uno specchio che riflette la nostra incapacità di imparare dalla storia. Il suo grido — "𝐓𝐡𝐞 𝐦𝐚𝐧 𝐢𝐬 𝐝𝐞𝐚𝐝" — echeggia oggi con dolorosa attualità nel dramma del conflitto israelo-palestinese, dove ancora una volta si assiste all’annientamento dei diritti umani, all’uso sproporzionato della forza, all’erosione della dignità delle persone civili in nome della sicurezza, della vendetta, della ragione di Stato.
Il parallelismo non è perfetto, certo — ogni conflitto ha la sua storia, la sua complessità — ma il cuore del messaggio di Biko resta intatto: quando il potere reprime la voce di chi chiede giustizia, l’arte deve rispondere. Deve alzare il volume. Peter Gabriel lo ha fatto allora, pagando un prezzo in termini di visibilità commerciale, ma guadagnando una voce morale.
In tempi in cui l’ambiguità e il silenzio diventano spesso una strategia, Biko ci ricorda che la neutralità, di fronte all’ingiustizia, è una forma di complicità. 𝐄̀ 𝐮𝐧 𝐢𝐧𝐯𝐢𝐭𝐨, 𝐚𝐧𝐜𝐨𝐫𝐚 𝐨𝐠𝐠𝐢, 𝐚 𝐩𝐫𝐞𝐧𝐝𝐞𝐫𝐞 𝐩𝐨𝐬𝐢𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞. 𝐄 𝐥𝐚 𝐦𝐮𝐬𝐢𝐜𝐚, 𝐪𝐮𝐚𝐧𝐝𝐨 𝐧𝐨𝐧 𝐡𝐚 𝐩𝐚𝐮𝐫𝐚, 𝐩𝐮𝐨̀ 𝐚𝐧𝐜𝐨𝐫𝐚 𝐞𝐬𝐬𝐞𝐫𝐞 𝐮𝐧𝐚 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐚𝐫𝐦𝐢 𝐩𝐢𝐮̀ 𝐩𝐨𝐭𝐞𝐧𝐭𝐢 𝐜𝐨𝐧𝐭𝐫𝐨 𝐥’𝐢𝐧𝐝𝐢𝐟𝐟𝐞𝐫𝐞𝐧𝐳𝐚.
brano 𝟕. “𝐆𝐚𝐦𝐞𝐬 𝐖𝐢𝐭𝐡𝐨𝐮𝐭 𝐅𝐫𝐨𝐧𝐭𝐢𝐞𝐫𝐬”
Rimane oggi un monito potentissimo sull’illusoria leggerezza con cui spesso affrontiamo questioni esistenziali e politiche tanto cruciali quanto complesse.
𝟏. 𝐃𝐚𝐥 𝐠𝐢𝐨𝐜𝐨 𝐢𝐧𝐟𝐚𝐧𝐭𝐢𝐥𝐞 𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐝𝐢𝐚𝐥𝐞𝐭𝐭𝐢𝐜𝐚 𝐝𝐞𝐢 𝐩𝐨𝐭𝐞𝐫𝐢
Gabriel paragona la diplomazia internazionale ai “giochetti” tra bambini, ricorrendo all’immagine dello show televisivo Jeux sans Frontières per denunciare come Stati e leader politici spesso trasformino conflitti reali in schermaglie sterili, dove l’importante diventa “vincere” piuttosto che risolvere. Questo parallelo, già esplicitato nelle note di copertina, invita a non sottovalutare la distanza tra la forma leggera del gioco e il suo contenuto distruttivo: le “armi” reali sostituite dai fischietti, le alleanze fluttuanti come squadre di cartone.
𝟐. 𝐋𝐞 “𝐩𝐚𝐫𝐭𝐢𝐭𝐞” 𝐠𝐞𝐨𝐩𝐨𝐥𝐢𝐭𝐢𝐜𝐡𝐞 𝐝𝐢 𝐨𝐠𝐠𝐢
Ricostruzione Ucraina–USA: l’accordo statunitense-ucraino sul fondo per le risorse minerarie (firmato il 30 aprile 2025) lega aiuti militari a ripartizioni finanziarie, trasformando la ricostruzione post-guerra in un “gioco” di scommesse sul futuro energetico e geopolitico dell’Europa orientale ( The Guardian )
Sommossa populista in Regno Unito: il recente boom del partito Reform UK – guidato da Nigel Farage – mostra come gli elettori, insoddisfatti dai “vecchi giocatori”, scendano in campo con nuove “squadre”, più o meno consistenti, nella speranza di ribaltare le regole del gioco politico. Questa continua rincorsa al cambiamento configura la politica come una partita in cui il tabellone muta a ogni mossa, senza garanzie di vittoria o stabilità
( Financial Times )
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𝟑. 𝐍𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐚𝐥𝐢𝐬𝐦𝐢 𝐞 𝐝𝐢𝐬𝐬𝐨𝐧𝐚𝐧𝐳𝐞 𝐢𝐧𝐭𝐞𝐫𝐧𝐞
L’invito di Gabriel a guardare oltre i confini si scontra con la crescita dei movimenti nazionalisti in Europa e oltre. La decisione di Romania e Bulgaria di entrare nello spazio Schengen nel 2025 – controcorrente rispetto all’ondata nazionalista che spinge a rialzare barriere – è un potente contrappunto al ritornello del brano (“Whose side are you on?”) e ricorda che, anche quando le regole del “gioco” politico sembrano indirizzate alla chiusura, esistono forze pronte a difendere un terreno di libertà condivisa
( The Guardian )
𝟒. 𝐃𝐢𝐬𝐢𝐧𝐟𝐨𝐫𝐦𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐞 “𝐠𝐚𝐦𝐢𝐟𝐢𝐜𝐚𝐭𝐢𝐨𝐧” 𝐝𝐞𝐢 𝐦𝐞𝐝𝐢𝐚
Oggi, la politica si nutre di meme, tweet e post virali: la “gamification” dell’informazione trasforma le notizie in sfide di like e condivisioni, schierando l’opinione pubblica in squadre contrapposte. Qui il messaggio di Gabriel suona come un avvertimento: quando la posta in gioco è la democrazia, non si può ridurre tutto a un torneo di popolarità.
“Games Without Frontiers” resta di una straordinaria attualità perché ci costringe a riconoscere la gravità dietro l’apparente frivolezza dei conflitti moderni. Ci interroga sul senso reale delle “regole” che stabiliamo e ci richiama alla responsabilità: smettere di giocare con la pace, il benessere e i diritti altrui.
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