Sin dalle sue origini la bicicletta fu ampiamente usata dagli strati
popolari, non soltanto per motivi di lavoro, ma anche in funzione
politica e, nel corso della lotta di Liberazione, per compiere azioni di
vario tipo, contro i nazifascisti.
In Italia la paura della bicicletta da parte dei reazionari ha una
data certa e molto antica e una firma tanto famosa quanto odiata dalle
forze popolari: quella del generale Fiorenzo Bava Beccaris, nelle vesti di Regio Commissario Straordinario, durante i moti del maggio del 1898
a Milano. Oltre ad ordinare una sanguinosa repressione, il generale
fece affiggere un manifesto che decretava il divieto nell'intera
provincia di Milano della «circolazione delle Biciclette, Tricicli e Tandem e simili mezzi di locomozione».
Più o meno con gli stessi termini, oltre alla minaccia della fucilazione, le forze dell'Asse
proibirono durante la loro occupazione del territorio italiano, in
funzione anti-partigiana, l'uso della bicicletta. Quel divieto, però,
avrebbe significato in città come Milano o Torino,
il blocco della produzione, giacché la maggior parte degli operai la
usava per recarsi al lavoro e così il provvedimento fu ritirato.
Nell'immediato dopoguerra, la bicicletta fu molto diffusa,
specialmente nelle campagne. Per i braccianti era l'unico mezzo di
locomozione, usato, oltre che per il lavoro, in occasione di grandi
manifestazioni o degli scioperi indetti dalla Lega dei braccianti. In
quelle giornate di lotta, masse imponenti si radunavano per impedire ai crumiri
di recarsi nei posti di lavoro. Contro le biciclette, appoggiate nelle
sponde dei fiumi, si accanivano con particolare durezza, schiacciandole e
rendendole inutilizzabili, le camionette della "Celere" di Mario Scelba,
una polizia di pronto intervento, utilizzata soprattutto in occasione
degli scioperi operai. Questa furia devastatrice non arrestò però lo
svilupparsi di grandi battaglie per ottenere migliori condizioni di
vita.
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